Iran: tutto
è bene ciò che finisce bene
di Israel Shamir - 24/06/2009

Il dramma iraniano è stato una buona
cosa, poiché dopo anni di demonizzazione gli
iraniani sono apparsi finalmente umani al pubblico
occidentale. Perfino McCain ha
pianto per la ragazza iraniana uccisa,
benché soltanto ieri sarebbe stato felice di “bombardare,
bombardare, bombardare” lei e milioni di sue
sorelle nell’oblio. Glenn Greenwald ha
stigmatizzato “l’inedita sensibilità
dell’associazione “bombardiamo l’Iran” per il popolo
iraniano” scrivendo: “Immaginate quante delle
persone che hanno protestato questa settimana
sarebbero morte se uno qualsiasi di questi
propugnatori del bombardamento avesse potuto fare a
modo suo! Si spera che uno dei principali vantaggi
dei tumulti in Iran sia quello di umanizzare il
Nemico Ultimo, chiunque esso sia”. Questa
umanizzazione non potrà essere cancellata tanto
presto, e dunque i bombardamenti potrebbero non
avvenire mai più, nonostante le preghiere di
Netanyahu e Lieberman.
Comunque c’è mancato un pelo. Un
giorno o due dopo le elezioni l’Iran si trovava
sull’orlo dell’abisso, pronto a scivolare nella
follia tra enormi folle senza legge e guardie
rivoluzionarie armate che si guardavano a vicenda
con odio profondo. Tutte le conquiste iraniane
avrebbero potuto essere cancellate dall’impazzare
dei tumulti; un potere regionale appena sbocciato
avrebbe potuto essere riportato indietro di
cinquant’anni. Per un momento la sceneggiatura del
futuro è diventata imprevedibile. Teheran si sarebbe
allineata a
Kiev, Ucraina, con la resa delle autorità
all’inesorabile spinta dei ribelli, ripetendo le
elezioni ed instaurando un presidente
filo-occidentale, privatizzando petrolio e gas,
conferendo più potere agli oligarchi e alle
multinazionali, entrando nella NATO? O avrebbe
seguito la sceneggiatura di Tien-an-men, inviando i
carri armati a schiacciare gli studenti ostinati?
E’ finita bene, evitando entrambi
questi estremi. I giovani professionisti, a volte
sprezzantemente definiti “il popolo Gucci”, i
comunisti anticlericali e i liberali, molti ordinari
iraniani appartenenti alla classe media, hanno
sfruttato quest’occasione per manifestare il loro
desiderio di un regime meno austero. Vogliono
potersi bere un bicchierino, poter indossare abiti
eleganti, poter celebrare ricchi matrimoni senza
doversi poi ritrovare nei guai. Alcuni vogliono
poter sfruttare i propri privilegi e limitare il
potere dello Stato e della moschea. Non vogliono
essere sorvegliati in continuazione dai servizi di
sicurezza. Alcuni dei sostenitori di Mousawi
sostengono anche la lotta palestinese; non sono
agenti della CIA, ma persone oneste e sincere. Molti
di loro si occupano di arte, del glorioso cinema
iraniano e di letteratura. Gli iraniani all’estero
appoggiano a larga maggioranza Mousawi e anche loro
sono persone simpatiche.
Il governo del legittimamente
rieletto presidente Ahmadinejad farà bene a prestare
attenzione ai loro desideri, almeno in parte. Si può
anche ridere di questa gioventù occidentalizzata che
gridava “Ahmadi bye bye” in un gergo da teenager
ripreso dai cartoni animati, ma nessuno potrà
governare in modo soddisfacente alienandosi del
tutto queste elite nascenti, e governare è prima di
tutto arte del compromesso.
I sostenitori di Mousawi non
dovrebbero restare troppo amareggiati dalla loro
sconfitta: erano un gruppo così variegato, composto
di comunisti e anticomunisti, di anticlericali uniti
a mullah e ayatollah, che in nessun modo avrebbero
potuto essere soddisfatti anche in caso di vittoria.
Anzi, una vittoria di Mousawi avrebbe dato inizio ad
una lotta aperta per il potere e probabilmente
proprio gli adepti del cambiamento più vocianti e
impegnati si sarebbero ritrovati sconfitti. Successe
già con i dissidenti sovietici. In Russia, durante
il confronto dell’agosto 1991 (molto simile a
questo), l’opposizione vinse e coloro che erano
stati sulle barricate a favore di Yeltsin ebbero
tempo per pentirsene; vennero ingannati e derubati.
La stessa cosa accadde ai dissidenti iraniani dopo
la caduta dello Shah: i comunisti del Partito Tudeh
si ritrovarono ad essere messi fuori legge dopo la
rivoluzione a cui avevano collaborato.
La stragrande maggioranza degli
iraniani ha votato per Ahmadinejad, poiché egli è un
uomo modesto e devoto alla sua gente, si è preso
cura dei poveri e ha tenuto l’Iran fuori dalle
grinfie imperialiste. Il suo lavoro sul programma
nucleare gode di vasta popolarità e nemmeno il suo
sfidante sconfitto ha osato pronunciare una sola
parola contro di esso. Ahmadinejad ha ricevuto forte
sostegno in tutto il paese, perfino nel Nord-Ovest a
maggioranza azera. E’ popolare anche nel resto del
globo come simbolo della ribellione del Terzo Mondo,
alla pari con Castro e Chavez. Mantiene buone
relazioni con le confinanti Russia e Cina, oltre che
con l’Iraq e l’Afghanistan occupati dagli USA. La
visita lampo di Ahmadinejad alla conferenza dello
SCO a Yekaterinenburg nel bel mezzo della rivolta ha
dato prova delle sue qualità di uomo di Stato. Nel
suo discorso, orgoglioso e acclamato, non ha mai
fatto riferimento alla crisi in patria e ha ricevuto
le congratulazioni dei suoi alleati, il presidente
Medvedev e il presidente Hu Jintao, per la sua
vittoria elettorale. Le sue coraggiose posizioni
antisioniste lo hanno reso popolare ai vicini arabi
dell’Iran, seppur con fastidio da parte dei
governanti arabi locali. Nel 2006 le sue armi hanno
salvato il Libano dall’essere divorato da Israele. A
volte si spinge troppo oltre, ma d’altronde in quale
altro modo potrebbe capire quanto lontano può
spingersi?
Le accuse di brogli elettorali sono
del tutto prive di fondamento, come
ben spiegato dal nostro amico James
Petras, mentre Thierry Meissan ha
esposto le tecniche utilizzate per
convincere gli iraniani di essere stati imbrogliati.
Ma al di là delle accuse di “brogli”, c’è un’altra
osservazione che è veritiera: le elite spesso non
amano la democrazia e le decisioni a maggioranza.
Chi è ricco, istruito e potente sente che la sua
voce non dovrebbe avere lo stesso peso di quella di
un comune lavoratore o contadino. Essi sono a favore
di “un governo delle elite e di un voto la cui
rilevanza per ciascun individuo sia determinata
dalla sua posizione in quella stessa elite”, come
era solito dire un personaggio di Ian Fleming,
Henderson, investigatore australiano e ubriacone,
amico di James Bond, in “Si vive solo due volte”.
Solitamente le elite trovano il modo
di “manovrare” la democrazia, in modo che la gente
normale debba necessariamente votare per un
rappresentante dell’elite. E’ il sistema che vige
dall’India agli Stati Uniti. Tuttavia in alcuni
momenti critici questo sistema non funziona più. In
questi casi le elite ignorano il voto della
maggioranza ed agiscono in modo diretto. E’ quello
che successe in Russia nel 1993, quando le nuove
elite filo-occidentali non si trovarono d’accordo
con la maggioranza rappresentata nel Parlamento e
mandarono i carri armati a cannoneggiare il
Parlamento stesso. Sulle sue rovine, essi
instaurarono il nuovo sistema di governo diretto. E’
quello che successe a Belgrado, dove i serbi
dovettero votare più e più volte finché non fosse
confermato il candidato sostenuto dalle elite.
Perciò, a livello psicologico, i sostenitori di
Mousawi sentono di essere stati derubati del potere
che gli spetta. Ma le elezioni in Iran non sono
rare: costoro possono ancora aggiustare il tiro
delle proprie aspirazioni, offrire maggior
considerazione ai desideri della gente comune e
attendere le prossime elezioni.
Oltre ai candidati e ai diretti
partecipanti, le elezioni iraniane hanno avuto altri
due grandi protagonisti le cui azioni hanno
contribuito ad evitare lo spargimento di sangue e il
disastro. Uno di loro è la vecchia Guida Spirituale
Ali Khamenei, un uomo saggio, laureato
all’Università di Mosca. Egli ha mantenuto il pieno
controllo degli eventi. Un uomo del genere è ciò che
è mancato a Kiev e a Pechino. Il suo discorso di
venerdì è riuscito a placare gli animi. Egli ha
tracciato una netta distinzione tra i facinorosi e
gli agenti della CIA da una parte, e i sinceri
sostenitori del programma di Mousawi dall’altra.
Dopo questa separazione delle pecore dalle capre, la
pacificazione civile ha potuto procedere senza
ulteriori ritardi. Khamenei ha perdonato e
abbracciato i sostenitori di Mousawi. Infatti da
quel momento in poi le grandi manifestazioni sono
cessate: solo piccoli gruppi di attivisti
irriducibili hanno sfidato i suoi ordini e sono
stati dispersi con mezzi non letali.
Il secondo protagonista si trovava
nel luogo più inatteso di tutti, a Washington. Il
presidente Obama è stato il vero eroe di questo
dramma. Si è rifiutato di favorire un’escalation
della situazione, a dispetto delle richieste dei
neocon. Non ha mai chiamato gli iraniani alle armi
contro il regime maligno; non ha dubitato della
legittimità delle elezioni, non ha minacciato
Teheran di estinzione. Per un presidente appena
eletto, schiacciato tra la vecchia guardia di Hilary
Clinton e Joe Biden e la nuova guardia di Rahm e
Axelrod, con una grave recessione fra le mani e le
casse elettorali piene di donazioni ebraiche, è
stato un atto di puro eroismo, degno di Iwo Jima.
Posso immaginare cosa avrebbero detto Ronald Reagan
o George Bush, pere et fils: qualcosa tipo
“oggi siamo tutti iraniani”, come minimo.
La fallita “rivoluzione verde” era
stata preparata dalla CIA, infiltrata dai sionisti,
dell’epoca Bush. Paul Craig Roberts ha
citato le parole del neoconservatore
Kenneth Timmerman, il quale, il giorno prima delle
elezioni, aveva scritto di una “rivoluzione verde”
in arrivo a Teheran, poiché “la National
Endowment for Democracy (NED, uno strumento
della CIA, NdI) ha speso milioni di dollari per
promuovere “rivoluzioni colorate”... e parte di quel
denaro sembra essere arrivato nelle mani dei gruppi
pro-Mousawi”. Ma il presidente Obama è stato un
attore assai riluttante in questo dramma. Solo dopo
essere stato pressato da Biden ha espresso il
modesto desiderio che a Teheran prevalesse la non
violenza. In tal modo, secondo me, egli ha assolto
onorevolmente alla promessa fatta al Cairo di
riconoscere i risultati elettorali e di evitare
interferenze negli affari interni degli stati
mediorientali. Certo, non ha potuto fermare la CIA,
ma questo probabilmente andava oltre le sue
possibilità.
Se si dovesse trarne una
sceneggiatura teatrale, il prologo sarebbe
ambientato alla Casa Bianca con l’arrivo del primo
ministro israeliano Netanyahu. Il suo ruolo potrebbe
essere interpretato da una vecchia attrice abituata
a fare le cose a modo suo.
“Voglio una pelliccia di visone
nuova”, avrebbe detto, e l’africano gli avrebbe
chiesto rudemente se non preferiva magari due calci.
Solo che, in una peculiare
imitazione di Salomè, Netanyahu anziché il visone ha
chiesto le teste mozzate di molti persiani. Ha
trovato una giustificazione biblica: i persiani sono
Amalek, la tribù nemica, e per questo
devono essere sterminati fino all’ultimo gatto.
Di norma, di fronte ad un primo
ministro israeliano, i presidenti americani
avrebbero iniziato a discutere come Abramo con il
Dio dell’Antico Testamento: oh no, non fino
all’ultimo gatto! Lasciamo in vita qualche gatto
persiano, per favore!
Invece Barak Obama non ha nemmeno
discusso l’argomento: ha chiesto a Israele di
congelare l’espansione delle colonie ebraiche.
“Dovremmo discutere dei metodi per
bombardare l’Iran, piuttosto...”, ha obiettato
Netanyahu, ma il suo superiore negro si è rifiutato
di acquistare la sudicia mercanzia degli ebrei. Ha
insistito sullo smantellamento di parte delle
colonie e lo ha fatto inserire nel programma. Per
riportare l’Iran sotto i riflettori e farci
dimenticare degli insediamenti, gli infiltrati
sionisti hanno provocato i disordini in Iran.
Gli eventi iraniani sono parte ed
esito dell’attuale lotta dello spirito americano,
rappresentato dal presidente Obama, per
ridimensionare l’eccessiva influenza ebraica. Nel
breve periodo in cui è rimasto al timone della nave
americana, egli ha compiuto alcuni passi importanti:
- Ha tenuto il
discorso del Cairo, offrendo un
ramoscello d’ulivo al mondo musulmano;
- Ha chiesto a Israele di rimuovere
le colonie e di porre fine al blocco di Gaza;
- Ha rifiutato di sostenere il piano
sionista per bombardare/destabilizzare l’Iran;
- Dopo 42 anni, la sua
amministrazione ha conferito la Silver Star a un
sopravvissuto della USS Liberty. La USS Liberty
venne aggredita da jet e cacciatorpediniere
israeliane e quest’atto indegno è stato tenuto
nascosto agli occhi del pubblico americano dalla
connivenza di tutti i presidenti americani, fino
ad Obama;
- Ispirata dalla sua vittoria,
l’Università della California a Santa Barbara ha
bloccato il tentativo della lobby
israeliana di screditare ed espellere il professor
Robinson. Queste cose non erano mai successe prima
in America. Sono paragonabili ai primi fallimenti
del senatore McCarthy e del suo
Comitato per le Attività Anti Americane,
quando la macchina che aveva creato per stritolare
la gente improvvisamente si ruppe.
E’ facile prevedere che la Lobby non
accetterà stoicamente la sconfitta. Partirà
all’attacco di Obama con tutti i mezzi a sua
disposizione, compresi gli stupidi blog in cui si fa
l’elenco di ciò che egli non ha ancora fatto, invece
di essere felici per ciò che ha già fatto. Ha già
abbastanza nemici a destra, perciò la sinistra
potrebbe starsene tranquilla, fino a tempi più
sicuri.
Gli iraniani hanno adesso
l’importante compito di rammendare gli strappi e le
sfilacciature provocate dalla campagna “colorata”
dei sionisti. Dovrebbero ricordarsi che esistono
tecniche molto avanzate di
manipolazione psico-sociale che
permettono ai malfattori di sfruttare i social
network come Twitter per catturare e distruggere una
società. I comuni cittadini iraniani che sono stati
catturati da questa forma di controllo mentale sono
innocenti come se fossero stati avvelenati. Il tempo
di lanciare pietre è finito, ora è tempo di
rimetterle insieme.
dal sito
www.israelshamir.net
traduzione di Gianluca Freda
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